I nostri consigli - Non-fiction

La sconfitta della Francia, nel 1940, trasforma il porto di Lisbona nell'ultima via di fuga da un'Europa che stava diventando un'immensa prigione nazista. La piccola città dalla vita calma e provinciale viene invasa da decine di migliaia di profughi in cerca della salvezza, di un visto, di un biglietto aereo o di un passaggio in nave che poteva tardare mesi. E così che, in un Portogallo aggrappato alla fragile neutralità del regime di Salazar, Lisbona sembra per alcuni anni trasformarsi nel centro del mondo: illuminata come la Parigi di prima della guerra, irreale nelle vetrine alla moda, nell'abbondanza di cibo, alcolici e sigarette, nei locali e sale da gioco, nell'eccitazione di una vita ansiosa e di un'attesa senza fine. Una città in bilico tra la sua vecchia identità e quella di una eterogenea folla giunta a piedi, in bicicletta o con mezzi di fortuna, dopo avventurosi e spesso tragici viaggi attraverso la Francia, la Spagna o il Nord Africa: ebrei, oppositori, gente che aveva perso tutto o personaggi ricchi e famosi, tutti accomunati dalla necessità di trovare una nuova patria a rischio della vita; letterati e artisti come Antoine de Saint-Exupéry, Jean Renoir, Chagall, Duchamp, Breton, Man Ray, Alma Mahler, Franz Werfel, Arthur Koestler, Walter Benjamin, Ian Fleming e i duchi di Windsor, la collezionista Peggy Guggenheim insieme a migliaia di volti senza nome in fuga dalla deportazione. Ma la capitale del Portogallo è anche la porta d'ingresso per i molti che compiono il percorso inverso, verso l'Europa in guerra: diplomatici, giornalisti, faccendieri, criminali, spie, doppiogiochisti, mercenari. Il miscuglio di questa umanità così diversa dona alla capitale portoghese in quei lunghi mesi un'atmosfera piena di elettricità e di tensione, nella quale una certa disinvoltura nei costumi si unisce a un fascino decadente e vagamente cospiratorio. Weber racconta questa storia ancora troppo poco conosciuta attraverso le mille vicende di coloro che hanno avuto la ventura di viverla, con una magistrale padronanza della grande storia politica e una sensibilità rara verso il minimo e il privato.
Ronald Weber, La via di Lisbona, EDT 2017

«La matematica ha questa particolarità, di non essere compresa dai non matematici», ha detto André Weil, tra i maggiori matematici del secolo scorso. Ecco perché Luciano Cresci ha concepito questi suoi Numeri celebri in forma di svago, dedicandoli proprio a coloro che matematici non sono, a quelli che non andavano bene in matematica e che hanno maturato nei suoi confronti un'avversione un po' intimidita. Qui i numeri non entrano in calcoli complicati, e non richiedono neppure particolari conoscenze. Un solo requisito è indispensabile ai lettori: la curiosità. Il campo numerico si estende ben al di là dei numeri primi, razionali, irrazionali e immaginari che ci suggeriscono i ricordi scolastici. Esistono classi «inaudite» di numeri, che è divertente passare in rassegna: numeri magici, fortunati, perfetti, felici, intoccabili, interessanti, mirabili, figurati; e poi numeri iperreali, surreali, titanici, inaccessibili e persino soprannaturali. Li accomuna la celebrità, il fatto di aver acceso, in filosofi e scienziati, letterati e cabalisti, ma anche in sublimi dilettanti, la voglia di indagare.
Luciano Cresci, I numeri celebri, Bollati Boringhieri 2017

Sabato 9 agosto 1942. La Sala concerti della Filarmonica di Leningrado trabocca di gente. Nonostante il caldo, gli orchestrali indossano molti strati di vestiti: tremano per la fame, quella che li ha fatti svenire durante le prove, che li sta facendo scomparire dentro giacche e pantaloni. Arriva il direttore: scheletrico nel suo frac, somiglia a uno spaventapasseri. Verrebbe da chiedersi quanta energia resti ai concertisti. Poi, però, attacca la musica. Leningrado era sotto assedio dal 14 settembre 1941, quando i nazisti avevano tagliato l'ultima via di terra per uscire dalla città. Gli stenti e il gelo avevano decimato la popolazione, spingendola a gesti disperati, a volte perfino al cannibalismo. I cannoni tedeschi facevano fuoco ininterrottamente. Ma un contrattacco sovietico li ha costretti al silenzio per un breve periodo, sufficiente perché la Settima Sinfonia di Dmitrij Sostakovic venisse eseguita. Quella partitura doveva raggiungere la città a ogni costo: un aereo speciale sorvolò Leningrado assediata e fece cadere dal cielo gli spartiti. La Settima venne suonata nella Sala della Filarmonica e, dagli altoparlanti collocati ovunque in città, i tedeschi furono obbligati a sentire che, nonostante tutto, la vita continuava a pulsare. Poi la Sinfonia divenne l'inno internazionale della lotta contro il nazismo; e tuttora è ritenuta il capolavoro di uno dei più grandi compositori del XX secolo: dal primo movimento - scritto da Sostakovic sotto una pioggia di bombe -, con il celeberrimo «tema dell'invasione» e il crescendo di tamburi rullanti, al finale, con le sue melodie festose e trionfali, rappresenta la liberazione non solo dei cittadini di Leningrado, ma di qualunque popolo che tenta di resistere alle iniquità della guerra e dei regimi totalitari. In "Sinfonia di Leningrado" Brian Moynahan restituisce un quadro nitido della città russa vessata da Stalin, ridotta alla fame da Hitler ed eternata da Sostakovic. Moynahan racconta un'impresa compiuta collettivamente da una città intera, una città morente che ha saputo risorgere, dimostrando a tutto il mondo che resistenza e musica, arte e libertà sono componenti inscindibili nella storia umana.
Brian Moynahan, Sinfonia di Leningrado, Il Saggiatore 2017

Lo spettro della fine degli studi classici si aggira fra noi da molto tempo. Ovunque, in Occidente, ci si dispera per il declino della fortuna del greco e del latino nelle scuole, per la chiusura delle facoltà di lettere antiche. Si vorrebbe addirittura che l'Unesco dichiarasse le lingue classiche «patrimonio dell'umanità», quasi fossero delle rovine preziose o una specie in via di estinzione. In questa decadenza, però, vi è qualcosa di paradossale: infatti, se da un lato i classici sono in declino «per definizione» (lo sono, cioè, da sempre), dall'altro sul loro destino il dibattito fra gli specialisti sembra non conoscere requie. E, soprattutto, sembra non lasciare alcuna speranza. Questo probabilmente perché continuiamo a guardare al mondo antico con rimpianto e nostalgia, o perché non riusciamo a liberarci dal timore di non poter preservare ciò che amiamo. Forse è la paura di veder svanire il fondamento della cultura occidentale. La nostra identità. Fare i conti con i classici ci invita a guardare alla cultura e alla storia greca e latina con occhi diversi. E a sottrarci al luogo comune secondo cui il dialogo con gli autori antichi sia un «dialogo con i morti». 
Mary Beard, Fare i conti con i classici, Mondadori 2017

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